Perché Orsini sbaglia su un punto

Non voglio fare polemica e probabilmente mi esprimo rozzamente, ma di alcune delle tesi di Orsini (non tutte) che all’inizio della guerra suonavano quasi scandalose ma ponevano degli interrogativi interessanti, a distanza di più di un mese dall’inizio della guerra si può dire che suonino per certi aspetti anche errate. Certo la guerra non è finita e non sappiamo come finirà, ma è ormai innegabile che Putin avesse sbagliato i conti.

E suonano errate quelle tesi – almeno a me che non sono un tecnico – perché Orsini nelle varie trasmissioni televisive aveva fatto un semplice calcolo aritmetico, cioè: siccome la Russia è molto più forte dell’Ucraina, la Russia può militarmente fare quello che vuole con l’Ucraina. Lui diceva e dice “sventra l’Ucraina quando vuole”.

Quindi, era la conclusione “scandalosa”, l’Ucraina si deve arrendere immediatamente (eravamo al secondo o terzo giorno di guerra, quando era già chiaro che Putin volesse impossessarsi di tutto il territorio e cambiare governo e costituzione) e noi dobbiamo spingerla ad arrendersi. In sostanza, la sua analisi non prendeva in considerazione nessun elemento e scenario politico, economico, diplomatico alternativo al suo calcolo aritmetico al giorno uno.

Adesso Orsini ha sfumato la sua posizione, perché specifica che la Russia ha un obiettivo minimo e uno massimo (prima diceva che l’Ucraina ha già perso) – e quindi però se l’Ucraina si fosse arresa nella prima settimana che cosa avrebbe ottenuto la Russia? Il minimo o il massimo? Le due cose non si equivalgono. Non è forse il passare a un obiettivo minimo uno dei risultati della resistenza ucraina? Orsini dice ora, non lo diceva mi pare all’inizio, che la sua analisi è però valida ceteris paribus, cioè a fissità di tutte le altre condizioni, cioè dei rapporti di forza iniziali, compresi quelli politici, economici etc. Ma è proprio su tutte queste condizioni che ucraini, europei e occidentali hanno lavorato e stanno lavorando (per carità, forse anche sbagliando alcuni strumenti e scartandone di alternativi).

In questo mese il sostegno compatto all’Ucraina, con anche le famose armi (ma, almeno per il momento, con armi che non portano all’escalation internazionale), il contrattacco economico e finanziario alla Russia da parte di UE e paesi occidentali, ha determinato uno scenario che ha reso molto più debole Putin dal punto di vista politico esterno e interno. Ed è proprio questo che sta creando le condizioni per una trattativa e per un ridimensionamento delle pretese sull’Ucraina.

Se anche oggi la Russia dovesse vincere e invadere tutto il territorio ucraino, la sua posizione non sarebbe forte come al momento iniziale. Non solo è divenuto chiaro che la conquista del territorio non concluderebbe il conflitto che doveva durare 48 ore (e che invece con la resa immediata sarebbe stato chiuso subito con il rafforzamento della Russia e con il crescere delle sue pretese anche su altri territori), ma è forse vero che una parte dello stesso establishment russo è ormai dubbioso sulla bontà della politica putiniana (cosa che non era due mesi fa) ed è chiaro che la società russa ha manifestato, in questo lasso di tempo, preoccupazioni e dissensi a vari livelli che rafforzano le possibilità di un cambio di rotta.

In sostanza: in tempi di guerra, la resistenza e l’azione militare sono anche strumenti diplomatici, non sono opposizione cieca e disperata a uno stato di fatto militare, che in questo caso specifico hanno contribuito grandemente a cambiare alcuni dati fattuali fondamentali. Tutto questo è avvenuto proprio perchè l’Ucraina non si è arresa dopo 48 ore.

Certo, è vero che Putin può distruggere Varsavia in 30 secondi e può “sventrare” quasi qualsiasi paese vicino, ma le altre condizioni (il “rimanendo ferme le altre cose”, il “ceteris paribus” di cui parla Orsini solo per non prenderlo in considerazione) non solo sono cambiate, ma sono tutta l’enorme partita politica che si sta giocando. Per questo mi pare che quello che Orsini diceva un mese fa (e che piano piano egli stesso sta rendendo più complesso) prima sembrava scandaloso, adesso semplicemente, in buona parte, errato.

Metafore e propaganda

Non condivido la posizione complessiva di Donatella Di Cesare sulla guerra in corso (almeno per come l’ho capita), tuttavia ho trovato utile e interessante una parte del suo interveno in una delle sue apparizioni televisive. È stato quando in uno scambio molto vivace con Mario Calabresi (la cui posizione complessiva sulla guerra in corso io condivido), quest’ultimo, per spiegare come vedesse l’atteggiamento di Putin, ha detto “È come se arrivasse il vicino di casa con la mazza da baseball perché tu fai casino da mesi nel condominio” (virgoletto ma la citazione non è testuale). Di Cesare l’ha interrotto affermando: “Questa è proganda”.

Trovo interessante e utile quell’affermazione, perché su questo Di Cesare ha ragione. Ciò non vuol dire che Calabresi volesse fare propaganda per chissà quali poteri o che fosse in mala fede (ripeto: io sono d’accordo con la sua posizione generale e trovo azzeccatissima la metafora), ma perché quando si passa dall’analisi delle cause al linguaggio del paragone, dell’analogia, della metafora, si sta passando da un piano ad un altro piano, cioè letteralmente al piano della propaganda delle posizioni.

E per certi aspetti non si può fare altrimenti. Le scelte collettive non si fanno solo su elementi strettamente razionali, ma su un tipo di razionalità che è legato agli aspetti affettivi, che è veicolata da immagini, da metafore, da vere retoriche. Ciò non vuol dire che Di Cesare abbia ragione e Calabresi torto, o viceversa, ma che in quel momento l’opinione di Calabresi aveva la forma della propaganda, proprio per la natura metaforica dell’argomento.

Sto usando il termine “propaganda” in senso neutro, non peggiorativo. Del resto si può fare propaganda, nel senso peggiorativo, anche con un linguaggio del tutto asettico, privo di immagini e apparentemente oggettivo. Dunque che una filosofa sottolinei un elemento propagandistico è qualcosa di utile a tutti. Ed è anzi un peccato che il discorso si sia chiuso con una semplice battuta.

L’uso di immagini e metafore è del resto uno strumento formidabile per filtrare la realtà, per orientarla (basterebbe osservare il linguaggio allucinato dello stesso Putin, o l’ampio dibattito sulla metafora della guerra per definire il Covid), ma anche per far capire a noi stessi il punto, per rendere più comprensibili fenomeni certamente complessi, ma che rischiano altrimenti di sfuggirci e di rimanere quindi senza senso. Il rischio è quello della manipolazione (o del fraintendimento) e della propaganda, ma è un rischio che corriamo in ogni fenomeno sociale e politico.

Per gli stessi motivi è assolutamente propagandistico il paragone usato da Carlo Rovelli in un’altra trasmissione televisiva per spiegare il suo disaccordo sull’invio delle armi all’Ucraina. “Immaginiamo – anche qui virgoletto ma sto parafrasando – che camminando per la strada io veda un ragazzino che viene aggredito da un omone armato di coltelli e pistole. Posso fare tante cose, come chiamare la polizia, ma una cosa stupida non posso fare, quella di non entrare in gioco ma dare un coltello al ragazzino, incitandolo a difendersi, perchè in questo modo invece di due botte si prenderà un colpo di pistola o un coltellata”.

A parte il fatto che, a differenza della metafora di Calabresi, questa non regge molto (mi pare), perché non è univoca, tecnicamente può essere chiusa in molti modi e in modo contrario a quello voluto da Rovelli. Probabilmente la maggior parte di chi ha ascoltato il paragone avrà pensato: Se vedo un omone che aggredisce un ragazzino, io intervengo o chiedo aiuto ad altri passanti per bloccare tutti insieme l’omone. Il che, stando nella metafora, vorrebbe dire che in Ucraina sarebbe stato meglio intervenire militarmente in vari stati, forse la Nato. Cioè, cognitivamente la metafora è sbagliata perché ci fa pensare esattamente il contrario di quanto vorrebbe farci pensare Rovelli.

Ma a parte questo, è chiaro che siamo anche qui, tecnicamente, nella piena propaganda. Neppure in questo caso si vuol dire che Rovelli sia una propagandista mosso occultamente dall’ex KGB. I suoi argomenti restano assolutamente validi (per chi li ritiene tali). Il punto è, ancora una volta, che il nostro linguaggio è intriso delle nostre percezioni (oltre ad orientarle) e di quella particolare razionalitià politica che è fatta di affetti, giudizi e pregiudizi, educazione, orientamenti. Teniamone conto, in ogni caso.

L’Europa deve cominciare a ragionare in termini “imperiali”?

Gli imperi ragionano in modo arcaico. Costruiscono sfere d’influenze, marcano linee rosse, programmano ingerenze, preparano eserciti, usano la forza. Ragionano in modo arcaico, almeno per noi europei, che dopo il suicidio delle due guerre mondiali abbiamo tentato di costruire un modello diverso, anche stando all’ombra degli imperi e sfruttandone l’esistenza.

Negli ultimi decenni abbiamo anche forse accarezzato l’idea di poter vivere come terminali di altri imperi, quello americano dal punto di vista politico, ma anche integrandoci agli altri imperi mondiali, però sempre in uno spazio e in un modo a noi proprio. Abbiamo creato un perimetro di collaborazione continentale, per quanto a volte farraginoso e lento (ma meno di quanto ce ne lamentiamo), una rete di protezione sociale, una competizione non autodistruttiva, un rifiuto formale della violenza, almeno tra gli stati dell’unione continentale. Conosco già tutte le obiezioni a questo quadretto apparentemente idilliaco, alcune che immagino le condivido anche, ma qui non mi interessano, perché non è il punto ora.

Il punto è capire come difendere il nostro modello se gli imperi del pianeta (la Russia, la Cina, gli USA) non dovessero più essere disposti a concederci lo spazio (cioè i “valori” e il metodo) che è il nostro. Nel momento in cui si tentasse di forzare lo spazio europeo, vuoi per motivi latamente ideologici, vuoi per motivi economici o di strategia generale, se si tentasse di non concedere la semplice posizione di terminale di altri imperi, se non si rispettassero le autonome condizionalità del nostro modo di fare, come potremmo difendere le conquiste fatte?

Mi chiedo quindi: è forse arrivato il momento di fare nostro quel linguaggio imperiale che ci pare arcaico ma che è il più contemporaneo nei fatti? Dobbiamo cominciare a ragionare da impero europeo? Ma come farlo senza tornare indietro e senza snaturare la nostra nuova natura di europei? E fino a che prezzo siamo disposti a pagare per tenere fuori la guerra dall’Europa?

Certo, come primo elemento viene alla mente quello della difesa comune, di un esercito europeo. Ma questo porta con sé l’esigenza di ricominciare a pensare la guerra, il che, già di per sè per noi europei, è un prezzo altissimo, perché rischia di modificarci. Non è solo questione del famoso esercito europeo (noi peraltro attualmente, mi pare di capire, spendiamo già più soldi della Russia, ma questo investimento è diviso nei vari eserciti nazionali), il discorso è più ampio.

La nostra sfera d’influenza, per usare il linguaggio imperiale, non può che essere democratica, non può che amplificare l’attrazione che il nostro modello liberal-social-democratico che è diverso da quello di altri, già esercita (e la crisi ucraina ne è un esempio). Ma forse allora bisognerà porsi sullo scenario mondiale in modo più conflittuale, anche dal punto di vista del verso che ha preso la globalizzazione, della reciprocità dei diritti e dei doveri commerciali, anche chiudendo spazi e proteggendo certe frontiere.

Il fattore energetico è un altro esempio dell’ambivalenza imperiale. Noi certo possiamo tentare un’indipendenza energetica o una sottrazione di influenza energetica da parte della Russia, ad esempio, nel momento in cui ci siamo resi conto che la Russia forza il nostro spazio. Ma possiamo farlo andando ad influenzare le politiche di altri paesi fornitori, come stiamo cercando di fare e come tutti hanno sempre cercato di fare, oppure anche decidendo una definitiva conversione alle rinnovabili come elemento di progresso civile, sociale ed ecologico, cioè ragionando da impero, ma da impero europeo.

Insomma il punto è questo: Esiste un modo europeo nel XXI secolo di essere impero? I tempi ci inducono a fare questo tipo di riflessione? E che cosa rappresenta la questione ucraina per noi in questo senso? Che cosa ci dice?

Ho dovuto spiegare (male) la guerra a mia figlia

Qualche giorno fa purtroppo ho distrattamente lasciato il televisore acceso, mentre mia figlia di cinque anni gironzolava per casa. In tv si parlava di guerra. Mi sono reso conto che era troppo tardi per metterci una pezza quando di colpo mi ha fatto: “Papà, so che c’è una guerra”. “Ecco – mi sono detto – ora comincia con le domande e sono fregato”. Non mi ero preparato una risposta, non sapevo come affrontare la questione. E di colpo mi ricordavo anche che ogni volta che succede qualcosa di brutto c’è sempre un articolo sui giornali che spiega cosa dire e cosa non dire ai bambini. Io però quegli articoli non li ho mai letti, perché non ho mai avuto prima una figlia di cinque anni (ora mi dico che sarebbe bello e utile se magari Il Post ne pubblicasse uno con qualche consiglio di esperti).

“Papà, so che c’è la guerra perché ne abbiamo parlato alla scuola con gli altri bambini”. “Come con gli altri bambini?”. “Sì, un amico ci ha detto che c’è un sindaco cattivo che ha fatto la guerra all’Ucraina”. “Pure l’Ucraina sai?”. “Sì, poi le maestre ci hanno detto qualcosa, ci hanno detto anche che è meglio non giocare con quelle macchinine col cannone, perché qualche bambino magari ha dei parenti lì e si preoccupa”. Ho tentato di far cadere l’argomento, di chiuderlo lì, per pura pavidità, ma non è stato possibile.

“Papà, ma questo signore è come il sindaco Giorgio?”. Mia figlia, per motivi misteriosi, ritiene che il sindaco della sua città, che è Giorgio Gori, sia l’autorità civile più alta in carica nel mondo e, per motivi altrettanto misteriosi, lo chiama il sindaco Giorgio. Ho tentato allora di lanciarmi in una distinzione di ordine giuridico-istituzionale, come fumogeno per chiudere il discorso: “No, non è sindaco, è presidente. Il sindaco si occupa di una città, il presidente di tante città e di tanti territori… A posto?”. “Ho capito; c’è però una cosa che non ho capito”. Mi sarei buttato dalla finestra per evitare altre domande, ma ho risposto ostentando tranquillità: “Dimmi, che cosa non hai capito?”. “Papà, ma esattamente che cos’è la guerra?”. “Ah…”. “Cioè, papà, non è come un dente che ti cade. È una cosa molto brutta, no? Chi sono quelli vestiti in quel modo tutto uguale? Che cos’è la macchinina col cannone?”.

Ho autorevolmente farfugliato delle risposte contraddittorie. Ho insieme detto cose terribili e minimizzato (cioè quello che non va fatto). “La guerra è quando si combattono i soldati, che sono quelli vestiti in quel modo. E la macchinina è un carro armato, che spara col cannone”. “Ma sparano dove?”. “Eh, si sparano tra di loro…”. “Ma anche ai bambini? Perché in tv dicono ‘bambini’?”. “Eh, no, boh…. Però non ti preoccupare, perché la guerra è in un paese lontano… Vediamo i cartoni?”.

In poche parole, ho sbagliato tutto. La guerra non è lontana, se è nella testa dei bambini, se è nelle loro domande, se è una paura. La guerra è vicinissima.

Allora mi sono un po’ informato su come fare a rispondere a cose di questo genere, anche perché evidentemente i bambini all’asilo, nella loro insospettabile società parallela, parlano tra loro di attualità. Credo di aver capito che bisogna spiegare le cose che succedono dando ai bambini un orizzonte di speranza e di ricomposizione (e non è che a bruciapelo ti venga in mente), parlando anche molto di chi aiuta a risolvere le situazioni per dare un senso di continuità, di rete, di protezione, di uscita e non di paura, di frammentazione, di catastrofe.

Alla seconda richiesta di mia figlia di parlare della guerra, il giorno dopo, ho spiegato allora un po’ meglio, credo. Ho fatto vedere le immagini delle persone che aiutano gli sfollati, degli amici che ospitano le persone, dei polacchi che proteggono gli ucraini, ho parlato della raccolta di aiuti che vengono poi mandati, dei bambini e delle mamme che verranno anche in Italia, ma non ho nascosto la necessità di difendersi. “La guerra è brutta, ma a volte bisogna farla per difendersi. E comunque anche nella guerra ci sono le persone che aiutano, ci sono persone buone, anche tra i soldati”. “Papà, io conosco una signora che è dell’Ucraina”. “Ecco, bene, allora sii gentile con lei perché magari è un po’ triste e preoccupata”. “Giusto”. Poi sempre per distrazione recidiva ho ancora dimenticato la tv accesa e mia ha figlia ha visto il tavolo con i negoziatori. “Papà, il sindaco qual è?”. “Qui non c’è il sindaco, sono i consiglieri della Russia e quelli dell’Ucraina. Hai visto che bello? Si sono seduti a discutere insieme e troveranno una soluzione. Però ci vorrà tanto tempo, eh. Non subito. Vedi però che parlano e quindi si arriverà alla soluzione, no?”.

Mia figlia era contenta perché le sembrava sensato, e poi stava capendo cose da grandi e stava discutendo col suo papà. Ora mi chiede spesso novità. E io quando guardo la tv o leggo qualcosa cerco sempre un argomento positivo sulla situazione da poterle proporre nel caso mi chiedesse qualcosa (Dio non voglia, e tengo spenta la tv) e questo, in fondo, tranquillizza anche me e un po’ mi commuove, perché è un modo di far vincere la vita e la speranza (almeno a me fa questo effetto).

Perché dico tutto questo? Per avvisare i tanti padri (e madri) che ancora non lo sanno: preparatevi le risposte!

La posta in gioco ideologica della guerra

Non vorrei aggiungere rumore di fondo al rumore di fondo che già c’è, ma su alcuni argomenti che circolano (e non solo sui social) sugli errori dell’Unione Europea, sulle presunte provocazioni alla Russia, sulla mancanza di saggezza e lungimiranza negli ultimi trent’anni dei paesi occidentali, mi permetto di fare qualche considerazione.

È infatti del tutto evidente (anche dagli argomenti di quel tipo) che questa guerra ha un valore politico, strategico e ideologico di portata straordinaria. In gioco c’è da una parte la narrazione russa della perdita e della ricostituzione di un impero, dall’altra la riconfigurazione del valore e della potenza dell’Unione Europea.

L’esigenza russa di ricreare uno spazio di influenza è del tutto comprensibile (e per certi aspetti anche ovvia storicamente e forse, in un quadro diverso da quello attuale, conveniente). Ma come la Russia ha cercato in trent’anni di soddisfare questa ambizione? Con un solo paradigma a disposizione, quello dell’autoritarismo. Qui è il punto ideologico che trovo interessante. Ed è il punto ideologico che sta dietro a questo scontro tra blocchi. La Russia di Putin non è stata in grado in vent’anni di porsi come modello di attrazione per i suoi stretti vicini che guardano a Occidente. Ha invece ingerito pesantemente sulla vita di molti stati legandoli a sé con mezzi di vario tipo.

Ma un paese così grande, così potente, così ricco di risorse avrebbe certamente potuto costruire in modo ideologicamente diverso la propria egemonia (e per una certa fase la Russia si era effettivamente aperta, con la partecipazione al G8, che era a sua volta un’apertura alla Russia dell’Occidente). Del resto la Russia di Putin è un paese autoritario al suo interno, dove il dissenso è mal tollerato, dove l’economia – che si basa sulle risorse energetiche e non su una particolare vivacità d’impresa – è nelle mani dei famosi oligarchi. Questo è quello che Putin ha saputo offrire ai suoi concittadini e alla costruzione di uno spazio più ampio. E tutto questo è stato nel tempo sempre più inserito in un racconto dei destini russi che è culminato con il discorso, allucinato, di una settimana fa sulla storia russa e ucraina.

Putin ha delineato più di un secolo di storia russa sotto il segno del declino e anzi della catastrofe: errori dell’impero zarista, crollo dell’impero, errori di Lenin, errori di Gorbaciov, crollo dell’Unione Sovietica. E tutto a partire non dalla pluralità delle genti dell’impero e dei popoli dell’Urss, ma solo ed esclusivamente centrandosi sul dominio russo sui popoli ex imperiali. L’autoritarismo interno si traduce in un autoritarismo esterno, se così posso esprimermi.

Quello che però risultava tragico e grottesco nel discorso di Putin è che di fatto la serie di catastrofi russo-imperial-sovietiche delineate veniva conclusa con l’annuncio di un’ulteriore catastrofe, quella dell’aggressione a un paese fratello come l’Ucraina. L’azzardo finale di un dittatore imbevuto di fantasie macabre e forse l’allontanamento ulteriore del suo paese dall’alveo europeo viene preparato da un racconto di declini.

Ma è da qui che deriva anche allo stesso tempo il disprezzo e la paura di Putin per l’Unione Europea. Esiste una frontiera ideologica, data dall’autoritarismo da un lato e dalla democrazia liberale dall’altro, che Putin usa come difesa quando evoca una nuova cortina di ferro.

Sto dividendo in buoni e cattivi? No. Sto parlando di modelli diversi. Le democrazie liberali europee sono fondate sull’ideologia dei diritti politici, delle libertà individuali, della rappresentanza. Questo non fa di loro dei sistemi perfetti o paradisiaci, né eticamente superiori agli altri. Ma è patetico sentire degli intellettuali da giornale, in questi giorni, attaccarsi alle incoerenze dei nostri paesi, alle contraddizioni tra l’elemento ideale e quello reale, alle oscillazioni nelle decisioni, alle lentezze, all’ipocrisia (che c’è) dei nostri governi e nostre, per bilanciare le ragioni di Putin a quelle europee.

È patetico, perché il punto non è questo. Il punto è che questa ideologia democratica (perchè di ideologia si tratta, non di dato antropologico o di natura), che trova nell’Unione europea uno snodo storico epocale, è molto diversa dall’ideologia autoritaria di Putin, ma ha avuto una sua capacità di irradiazione sul continente (è Putin stesso, con le sue paure, che ce lo sta facendo notare).

Per questo uno degli obiettivi di Putin è ormai da anni la disgregazione dell’Unione Europeo. E non è un caso che Putin abbia appoggiato o/e sia stato appoggiato dai movimenti sovranisti occidentali (Le Pen, Salvini, Trump, Zémour…), quelli europei tutti in gradi diversi contro l’Unione Europea, tutti “exit”, tutti simpatizzanti per uno stile di pensiero autoritario da “pieni poteri”, tutti a fantasticare il proprio paese fuori dall’unione con i vicini, tutti a dire che da soli si è più forti. Pensare che l’attrazione di questo modello europeo sulla maggior parte dei paesi dell’ex blocco sovietico sia stata e sia così forte è però una vittoria storica. Quando l’Ucraina dice che vuole liberamente entrare nell’Unione Europea (lo so, c’è il problema Nato, che è diverso, che esiste anche per gli europei, e che non è ora il focus del mio ragionamento), questa non è un’aggressione europea alla Russia, ma è un fallimento storico dell’autoritarismo russo, è l’avviso della fine di Putin e del crollo del suo modello ottocentesco e “sovietico”. Putin invadendo l’Ucraina crede di rilanciare la sua narrazione nazionalista (senza il minimo rispetto per le nazioni altre), crede di indebolire l’Unione Europea e poi domani chissà, di contribuire a sfaldarla, crede di guadagnare un ruolo russocentrico nelle sfide mondiali, ma la verità è che sta in primo luogo cercando di mantenere il suo potere personale e che in un tempo medio finirà per aggiungere un fallimento epocale a quel romanzo nazionale a cui nessuno, probabilmente neanche i russi, crede. La guerra in corso è anche, se non soprattutto, una guerra di ideologie e le democrazie europee riunite nell’Unione Europea sono davvero in prima linea.

Tutte le mosse del presidente

Su queste elezioni presidenziali – a mia memoria tra le più interessanti e tra le più potenzialmente importanti – ci siamo divertendo a dire tutto e a fare tutte le considerazioni del caso. Un elemento, tra i più istruttivi e in fondo molto rilevante, mi pare non sia ancora stato sottolineato e cioè il modo in cui Mattarella si è posto personalmente fin dai mesi precedenti rispetto a queste elezioni. Il suo manifestare, almeno fin dall’inizio di novembre (cioè qualche settimana prima del decollo del dibattito, frenato dalle ultime schermaglie sulla legge di bilancio), è stato interpretato al primo grado di comunicazione, letteralmente, cioè come una semplice non disponibilità al bis. Del resto quel discorso era stato preceduto dalla notizia, trapelata in molti giornali, che il Presidente stesse cercando una casa in affito. Sappiamo anche la zona e i metri quadri, almeno così si scrive sui quotidiani. L’intenzione di sottrarsi a una rielezione viene poi sempre ribadita, spesso per via indiretta, in varie occasioni e situazioni. Nel giro di poche settimane, l’idea di un Mattarella non disponibile diventa un fatto scontato (e una frase fatta) nel dibattito corrente, anche grazie alle esortazioni spontanee a rimanere (come il bis chiesto a gran voce alla Scala di Milano). Nelle settimane immediatamente precedenti al voto su twitter anche qualcuno dei suoi collaboratori più stretti ostenta i cartoni ormai quasi pronti a lasciare il Quirinale. In questo modo la comunicazione del presidente – che peraltro ha dimostrato in molte occasioni di essere particolarmente raffinata; basterebbe ricordare il fuori onda, in pieno primo lockdown, su “Giovanni, non vado dal barbiere neanche io” che infuse coraggio e mostrò empatia e coesione in un momento duro – è stata funzionale non a una sua rielezione, ma alla creazione di uno spazio di sospensione, di una cesura, che consentisse il caos tra i partiti, senza il quale una sua rielezione non sarebbe stata possibile. Mi spiego meglio: non sto dicendo che Mattarella volesse essere eletto (credo anzi che proprio non volesse); sto dicendo che avendo letto con grande anticipo alcuni possibili sbocchi della situazione, ha creato le condizioni psicologiche, narrative e politiche (di sentiment, dicono alcuni) perché una sua elezione come riserva estrema potesse essere preservata. L’elezione di Draghi è sembrata per mesi la cosa più ovvia, ma la rielezione di Mattarella è sembrata la cosa più facile. Ma un Mattarella che fosse rimasto ambiguo rispetto alla rielezione lo avrebbe gettato nel tritacarne delle prove di forza dei partiti (esattamente com’è successo a Draghi, che ha deciso una radicalmente diversa condotta di avvicinamento all’elezione) e avrebbe privato i partiti – e quindi il paese – della carta estrema, cioè la sua rielezione, che poteva evitare una crisi pericolosissima in caso di bisogno. Potremmo dire che si è coperto da solo, creando un sistema di segnali che lasciavano i partiti soli a risolvere la situazione senza un appoggio, ma coprendosi ha preservato un’opzione proprio con il negarla. E quando il caos ha consumato tutte le ipotesi, la “saggezza del parlamento” ha chiuso il racconto chiedendo la disponibilità di quel presidente indisponibile, che assecondando la richiesta, pur avendo “altri progetti”, attutisce a livello istituzionale la crisi delle forze politiche che non riescono a produrre politica.

La valanga di meme sul presidente che deve disfare i pacchi, che deve disdire il contratto d’affitto, che chiede di essere liberato, che vuole a tutti i costi andare in pensione, consacrano poi spontaneamente la riuscita dell’operazione, confermando l’aspetto di sacrificio del bis presidenziale e chiudendo la crisi nell’epoca dei social.

L’antivaccinismo savant e il labirinto enigmistico

Nel dibattito, sempre più intricato e polarizzato allo stesso tempo, sostenuto dai no green pass e da un certo antivaccinismo dotto, savant, ho come l’impressione che si faccia un po’ il gioco del labirinto dei giornali enigmistici, con la differenza che non si segue il labirinto partendo dall’entrata verso l’uscita, ma da un’uscita immaginata, a ritroso, verso il punto in cui siamo.

Vorrei essere chiaro: Si può pensare, con prospettiva storica, che green pass e vaccinazione possano essere l’inizio di un processo che distopicamente porti (e non che sia già) a uno stato di controllo della popolazione sotto la minaccia della salute, con tutto ciò che questo comporta? In un senso del tutto teorico, sì. Ed è assolutamente positivo che ci sia chi lo sottolinea con forza e tenacia.

E se si pensa alla vicenda pandemica e alle risposte degli stati, avendo in mente questa visione distopica, ci si può convincere che questa prospettiva sia non soltanto teorica, ma che sia effettivamente quello che sta succedendo? A quanto pare, sì.

Tuttavia la storia e tutti i processi storici visti nella loro realizzazione concreta non sono deterministici. Accanto a una via che si realizza – cosa che risulta visibile a posteriori e neanche in modo così limpido – esistono tante altre vie pur percorse che si esauriscono, che risultano vicoli ciechi, non nel senso che non portano da nessuna parte, ma nel senso che non hanno condotto ad altri effetti che, a posteriori e solo a posteriori, siano ricostruibili come una via retta o una strada aperta. Queste vie laterali, in sé, esistono in ogni presente (perché il presente non è prefigurazione del futuro, è presente, con tutte le sue possibilità, non infinite ma molteplici) e sono esistite sempre, anche se ne abbiamo perso memoria.

Dunque si può certamente pensare che green pass e vaccini siano potenzialmente l’inizio di una strada distopica, e quindi vigilare, ma credere che necessariamente ciò avverrà se non si rifiutano in blocco vaccini e green pass (metto insieme cose distinte, lo so) e che siamo nella realtà del primo concreto passo in quella direzione significa decidere di ignorare tutte le vie laterali, i vicoli, le realtà concrete che non generano gli effetti che condurrano a quella distopia, ma che porteranno ad altre conseguenze e determinazioni (per es., banalmente, a salvare le nostre società dagli effetti di una pandemia non governata), cioè significa decidere, con un atto fideistico (e su questo fideismo avrei da aggiungere, e lo farò altrove, perché è un processo estremamente interessante di sottrazione, ma anche di trasformazione e arricchimento, per alcuni aspetti, dei legami della comunità), di ignorare le possibilità storiche, cioè di ignorare, tra l’altro, una gran parte del presente. Certamente – aggiungo -, il fatto che ci siano così tante persone che credono nell’imminenza di una dittatura sanitaria è storicamente interessante, anche se questa dittatura non ci sarà, così come è interessante che, per esempio nel medioevo, ma anche in età moderna, ci siano stati gruppi di persone che hanno creduto all’imminenza della fine del mondo, anche se la fine del mondo non c’è stata (ed è questo un esempio di vicolo cieco, che però ha alimentato azioni e pensieri).

In questo senso il labirinto dei giornali enigmistici viene percorso al contrario, cioè da un “a posteriori” che elimina tutte le altre possibilità. Nel gioco del labirinto sappiamo che c’è un’uscita, ma non sappiamo dove e quindi per noi tutte le strade sono percorribili. Nel gioco dell’antivaccinismo “savant”, che si fa al contrario, sappiamo già che alla fine c’è la distopia. E da lì torniamo indietro, verso il punto in cui siamo adesso. E dunque, peraltro, non possiamo accorgerci delle altre strade. Ma i vicoli ciechi del gioco sono il nostro presente e nessuno ha disegnato il labirinto per noi, quindi quei vicoli ciechi potrebbero in realtà dischiudere le vie (più di una) di quel che succederà, mentre la distopia potrebbe essere una semplice possibilità che non si realizza.

Se la visione distopica fosse proprio questo, cioè una possibilità teorica (e teoricamente ben concreta), che magari sarà scartata dalla storia? Pensare che sia certamente la strada maestra non è un’incomprensione della storia e non una sua conoscenza? Non è un atto fideistico pensare davvero che in questo momento ci voglia un Comitato di Liberazione Nazionale, come ai tempi del fascismo, e non prendere in considerazione nessun altro indizio contrario? Del resto non è forse un caso che ad alcuni esponenti dell’antivaccinismo “savant” o del no green pass integrale, sia stato contestato, per esempio, un uso scorretto dell’analogia storica (cioè di un uso del passato completamente decontestualizzato) o anche, in tempi non sospetti, un disinteresse, se non addirittura un disprezzo, per la storia e i suoi meccanismi.

Tutto questo per dire che il dibattito è, sì, estremamente utile, perché i processi in corso sono inediti e quindi misteriosi (anche se per alcuni giocatori del labirinto al contrario non sono inediti, ma ricalcano i fascismi), ma non sarebbe forse meglio – da ambo le parti – assumere gli elementi distopici per disinnescarli, per depotenziarli, per fare in modo che non si verifichino, tenendo conto che se la pandemia non viene governata le nostre società potrebbero esserne squassate? Il dominio della tecnica, che però ci promette di salvarci, sta facendo ulteriori passi avanti? Forse sì, che cosa dovremmo fare allora per prendere il buono o difenderci dal peggio? La nostra idea di libertà sta cambiando? Forse sì, come fare allora per non trasformarla nel suo contrario, ma anzi potenziarla, tenendo conto di forse nuova antropologie che si prospettano? C’è davvero solo dittatura sanitaria, distopia, dominio incontrollato della tecnica davanti a noi?

La mia prima lezione

Devo dire la verità: me lo immaginavo un po’ diverso il mio ritorno in Italia. Dopo dodici-tredici anni all’estero, nei posti più vari (e più belli, devo dire: Parigi, Vienna, Monaco, Strasburgo…), per esigenze varie e per varie opportunità, a un certo punto mi si apre la possibilità di tornare in Italia, in un’università tra le più serie e dinamiche del nostro paese e non solo, e in una città di meraviglie, Venezia. Dopo anni ad insegnare in inglese o in francese, a studenti e studentesse di grande valore, certamente, ma per me pur sempre distanti, almeno a un livello iniziale, con formazione diversa dalla nostra, con aspettative e attese differenti, posso finalmente dirmi: che bello poter tornare a fare lezione in italiano!

Tutto bene, tutto perfetto, ma il mio primo corso italiano è previsto per l’inverno 2020. Faccio solo in tempo a prendere contatto con la nuova università che scoppia la pandemia. Tutto passa on line e le prime settimane sono davvero, dal punto di vista dell’insegnamento, drammatiche (certo, sono drammatiche in senso assoluto): non sappiamo bene che strumenti usare e come. Ci viene chiesto di provare con i pdf commentati a voce, da caricare su una piattaforma di cui eravamo già dotati – e questo ci permette di tenere in piedi i corsi nell’immediatezza repentina dell’emergenza -, poi rapidamente si passa alle lezioni in diretta a distanza, che rimangono però disponibili in registrazione, si cambiano vari strumenti informatici e ogni volta bisognava capire un po’ come fare. Mentre c’era chi dava dei fascisti ai docenti e alle docenti che non si rifiutavano di fare lezione a distanza e che secondo qualcuno stavano addirittura distruggendo una forma di socialità, una forma di vita, un patrimonio secolare, nelle università ci si interrogava continuamente (a distanza) con riunioni, comitati, consultazioni, su come migliorare la qualità delle lezioni, su come non far perdere l’anno, su come prendersi cura della formazione di iscritti e iscritte e anche della loro salute psicologica. L’anno accademico successivo siamo di nuovo pronti e pronte, ma a fare lezione in modalità “duale”, cioè docenti in presenza con un numero di studenti e studentesse in aula ridotto per garantire la sicurezza di tutti (aule semivuote, prenotazioni con app, distanziamento, etc.) e gli altri in collegamento diretto da casa (ma con lezioni registrate disponibili). Però niente da fare: dobbiamo di nuovo fare tutto a distanza, perché muoiono 900 persone al giorno di Covid e non è il caso di scherzare.

Insomma, certo facevo lezione (oltre a tutto il resto: ricerca, pubblicazioni, amministrazione, perché le università non si sono mai fermate), ma non era proprio come me l’ero immaginato, questo ritorno.

Da questo semestre siamo però finalmente in presenza, a parlare, a discutere, a condividere e ho potuto finalmente fare quella che si può considerare la prima normale lezione. Ca’ Foscari, peraltro, ha da qualche anno nel suo canale youtube una serie di video che si chiama “La prima lezione di…”. Si tratta di prime lezioni di corsi tra i più diversi che vengono registrate e offerte a un pubblico ampio, per far vedere che cosa si fa in aula e per stabilire un legame più caldo e intelligente con una comunità più ampia, che poi è un modo ulteriore di costruire socialità e condividere passioni. Qualche settimana fa, mi è stato chiesto il permesso di registrare la mia lezione iniziale di quest’anno e per me è stato come un regalo, perché in fondo quella era davvero la mia prima lezione in Italia e il mio ritorno finalmente comincia davvero (peraltro è una prima lezione in termini assoluti perché è la lezione inaugurale di un corso che abbiamo aperto quest’anno, Storia delle dottrine politiche). Mi sembra allora una bella idea condividere questa lezione anche con chi mi segue da tanto tempo su questo blog – non perché la lezione in sè sia chissà che cosa (uno fa quello che può e che riesce) -, ma perchè è comunque il segno di un nuovo inizio nella normalità (e anche perché Machiavelli, oggetto della lezione, è sempre qualcosa di emozionante e importante, anche al netto dei limiti di chi lo racconta).

Sul green pass e le polemiche

Io capisco molto bene le inquietudini che solleva il green pass e gli elementi critici che teoricamente presenta. E sono anche convinto che il governo non possa puntare tutto su quello strumento di pressione, perché gli spazi di convincimento di una larga fascia di non vaccinati sono molto ampi. Faccio un esempio: perché non vedo degli spazi televisivi in cui si spieghi come funzionano quei vaccini, in che cosa differiscono dagli altri, in cui si risponda in modo semplice alle domande anche strampalate che persone a volte confuse e impaurite si pongono? C’è sicuramente un gruppo di mestatori (quanti sono?) fanatici e pericolosi, che vanno bloccati con tutti i mezzi leciti, ma c’è anche un vasto gruppo di persone che non si vaccinano per paure varie e anche appunto per teorie strampalate. L’ideale sarebbe arrivare ad un numero di vaccinati tale da tollerare statisticamente anche chi non vorrà vaccinarsi. In una società articolata e aperta ci dovrebbe essere posto anche per gli strampalati. E di certo non è la colpevolizzazione l’arma vincente.

Ben vengano quindi le opinioni di tutti e tutte. E certo – per far riferimento agli interventi delle ultime settimane – non si può certo chiedere a persone che di professione hanno sempre studiato le conseguenze storiche delle cose (storici, filosofi, sociologi, etc.), e che hanno una vista particolare per le conseguenze inattese degli avvenimenti e ora hanno davanti agli occhi una cosa, il green pass e gli obblighi vaccinali, che apre una gamma vastissima di potenziali conseguenze impreviste, di stare zitte, di non ragionare o di non immaginare conseguenza potenziali. Non solo non si può pretendere che non lo facciano, ma sono convinto che non possiamo privarci del loro punto di vista (e non credo di pensarlo per questioni corporativistiche, essendo anch’io un accademico). È importante che ne parlino e che mettano sotto pressione i decisori e non sempre bisogna essere d’accordo.

Ci sono però delle cose che non mi tornano nel famoso documento degli universitari e universitarie e nel punto di vista di Barbero o di altri intellettuali intervenuti in questi mesi e giorni.

Del documento apprezzo l’idea di tenere vivo il dibattito sul green pass, che è uno strumento straordinario e che non può essere perennizzato o reso ordinario. Trovo invece un po’ squalificante del documento stesso l’evocazione di altre epoche storiche (il fascismo, immagino, anche se un po’ pavidamente non viene detto in modo esplicito), perché non mi aspetterei di trovare un uso dell’analogia storica così grossolano in un documento di storici. L’intellettuale che nel modo più brutale ha usato l’analogia è stato, a dire il vero, il filosofo Agamben, che fin dall’inizio della pandemia non si è fatto scrupolo di paragonare professori e professoresse che non si fossero ribellati alla didattica a distanza ai professori che firmarono il giuramento di fedeltà al fascismo; poi ha paragonato il green pass a una tessera verde che rende chi ne è privo automaticamente portatore di una sorta di “stella gialla” e espone invece quanti la portano a conseguenze di controllo e di costruzione di un regime dispotico di cui anche loro si renderanno conto a proprie spese.

Ora, dal mio punto di vista, un conto è segnalare dei pericoli e delle incongruenze, un altro conto è l’uso di strette analogie storiche che squalifica metodologicamente chi le propone. Evocare il fascismo, il nazismo, il genocidio, in che cosa ci aiuta a comprendere la situazione attuale nella sua particolarità e nella sua concretezza storica? In che cosa ci aiuta a risolverla, o anche solo a focalizzarla? Quello che spesso viene rimproverato a chi studia ed è alle prime armi, e cioè di attualizzare il passato, di mettere insieme fenomeni diversi, di non avere reale gusto per la particolarità e la concreta diversità storica diventa qui il criterio interpretativo unico. Non solo, introduce anche un’interpretazione del passato quasi meccanica, come a trovare leggi universali. Ogni volta che un governo, un’istituzione, un potere, ha operato in modo eccezionale nel suo momento eccezionale allora si è imposto, si è voluto imporre, ha portato a conseguenze irrevocabili e imperiture? Funziona davvero così la storia? E davvero le difese istituzionali di cui siamo forniti sono così fragili, così evanescenti, così inutili? Per questo trovo scoraggiante che in un documento di persone che studiano la storia si legga che il green pass fa “affiorare alla mente altri precedenti storici che mai avremmo voluto ripercorrere”.

Così come trovo sconfortante che si dica che nelle università chi non ha il green pass non vede riconosciuto il diritto allo studio. Le università hanno fatto uno sforzo gigantesco nell’ultimo anno e mezzo perché studenti e studentesse potessero avere comunque corsi di qualità (ci si è riusciti sempre? No. A marzo-aprile 2020 siamo partiti da zero e con una certa confusione, ma nessuno ha perso l’anno o i corsi), siamo tornati in aula in modo duale (in presenza e a distanza contemporaneamente) non appena è sembrato possibile, un anno fa (e poi ci siamo riposizionati sull’on line con il secondo lockdown) e ora che la situazione è migliorata – perchè ci sono i vaccini! – quasi tutte le attività sono di nuovo in presenza. E chi non ha il green pass? Chi non ha il green pass – cioè non vuole vaccinarsi e non vuole neppure fare il tampone per garantire chi gli sta intorno – nella maggior parte delle università, o forse tutte, può comunque seguire le lezioni a distanza. Certo, la situazione non può perennizzarsi in questo modo, non è così che immaginiamo il futuro prossimo, così come siamo stufi di mascherine e distanziamenti, ed è giusto che si faccia pressione sul governo perché trovi strumenti alternativi, ma davvero possiamo dire che ora, in questo momento, la situazione sia quella di un dispotismo incipiente attraverso il green pass? E che cosa dovremmo fare, ora? Eliminare ogni difesa e poi magari chiudere tutto subito dopo? O fare i corsi a distanza per tutti?

Peraltro non capisco la logica nel dire che sarebbe meglio se il governo si decidesse per l’obbligo vaccinale, perché meno ipocrita del green pass. Ma il green pass è proprio lo strumento che aiuta a non introdurre l’obbligo vaccinale, che sarebbe una soluzione molto più traumatica proprio nella logica del documento degli storici. Com’è possibile che la mia libertà sia messa in crisi da un green pass che mi dice che se non voglio vaccinarmi devo farmi il tampone e non dall’obbligo di inocularmi il vaccino? Si può essere contro il vaccino obbligatorio e a favore del green pass; ma come si regge il contrario, cioè essere contro il green pass ma a favore del vaccino obbligatorio? Si dice che è per smascherare l’ipocrisia dello stato che non si assume la responsabilità di obbligare al vaccino. Ma la questione dell’ipocrisia non è troppo astratta e, nella situazione in cui siamo, del tutto evenemenziale? Se noi ci concentrassimo sulla specificità del presente, non troveremmo che il green pass – lo ripeto: capisco e condivido l’analisi teorica dei rischi potenziali del dispositivo – è uno strumento pragmatico per cambiare il verso degli avvenimenti per un certo numero di mesi? Se si tornasse alle chiusure, il costo sociale e individuale non sarebbe troppo alto? Non si rischierebbe davvero di innescare nella popolazione fenomeni ancora più pericolosi? E se l’eccezione, oggi, nel presente, fosse davvero un’eccezione?





Proposte nuove per la didattica

In questi giorni e settimane il web viene di nuovo infiammato da polemiche e dibattiti sulla lezione frontale (universitaria o meno) e sulla didattica innovativa. Siccome ne leggo e ne sento di tutti i tipi, anch’io ho le mie proposte da avanzare.

Al posto della lezione frontale – cioè uno che viene e ti spiega le cose parlandoti -, si potrebbe provare la lezione nucale preconciliare: uno viene e ti spiega le cose non di fronte, ma di nuca, come si diceva messa fino al secolo scorso. Per non perdere il contatto visivo si può pensare a una sistema di specchi.

Oppure proverei la lezione pitagorica: chi insegna parla effettivamente di fronte, ma tra sè e chi ascolta mette un velo, come faceva Pitagora, in modo che chi ascolta si concentri sulle parole dette. Una versione moderna di questo può essere la lezione “the voice”. Il prof. è normalmente alla cattedra, ma gli studenti sono di spalle con una sedia girevole. Se gradiscono la lezione nei primi 5 minuti schiacciano il pulsante e la sedia si gira e il prof. continua la lezione, altrimenti il prof. se ne va, e vale già come valutazione negativa, e viene riciclato nell’amministrazione pubblica.

La lezione innovativa che preferisco è però quella in cui gli studenti vengono messi a proprio agio e imparano anche divertendosi: il prof. deve insegnare sottolineando le parti importanti con dei passi di danza. Alla fine deve fare 3 minuti di tip tap ed esclamare “That’s entertainment!”, strappando l’applauso degli astanti. Una variante può essere la lezione “the game”: è consentito leggere i testi, o anche cose più raffinate, come la mappa del metro di Londra, ma ogni quarto d’ora bisogna fare una partitina a space invaders, per non dimenticare che il mondo cambia rapidamente, ma un’invasione dallo spazio è sempre possibile.

Altra possibilità è la lezione “attimo fuggente”. Chi insegna sale in piedi sulla cattedra (dispense possono essere date a chi presenta certificato medico di non idoneità), seguito subito da chi ascolta, distrugge le pagine dei libri appena dopo averle lette e di tanto in tanto esclama “Pensate con la vostra testa!”.

Dal punto di vista della tecnologia credo che lo strumento principe del futuro possa essere il vecchio citofono. Uno non ci pensa, ma a volte la soluzione è a portata di mano. Ogni prof. va cercando tutti i suoi studenti a casa loro – perché molti alla mattina sono stanchi, dal momento che la sera prima hanno vissuto, che è la cosa più importante – e fa la lezione tagliata su misura per loro, al citofono. Si risparmia sui trasporti, sugli spazi e soprattutto c’è un rapporto individuale. In questo modo studenti e studentesse saranno anche invogliati a dare un voto più alto ai questionari ministeriali sulla didattica, che puntano molto sul rapporto diretto docente/discente. Se c’è il videocitofono però viene meglio.

DISCLAIMER: Trattasi di plaisanterie. Trovo utile e anzi fondamentale che si parli di nuove forme di didattica. Vorrei però che se ne parlasse in modo serio e non come pretesto per attaccare chissà chi e chissà cosa. Non sono un pasdaran della lezione frontale (sebbene sia la forma che uso di più), anche se sarebbe bello se chi la critica non lo facesse con una lezione frontale. Penso che gli studenti non vadano inseguiti in tutte le loro minute necessità, come siamo spinti a fare da centinaia di regole e questionari, perché questo vuol dire infantilizzarli. Però è necessario ristabilire e rendere nuovo e chiaro il patto tra chi insegna e chi impara. Credo che le aule universitarie o scolastiche non possano fare come se non esistesse un mondo esterno, ma penso anche che dovrebbero ritrovare l’orgoglio (sensato, ragionato e ben costruito) di restituire agli studenti e alle studentesse una porzione di vita quotidiana e uno spazio cognitivo e formativo che consenta di riflettere sul mondo e su se stessi come parte del mondo.